Il regista deve fare in modo che gli attori esprimano l’unicità dei loro corpi, e creare nello spazio teatrale le occasioni d’incontro tra queste diversità. Ognuno ha una sensibilità diversa che deve essere valorizzata nell’attività di laboratorio, dando la possibilità di “fare un’esperienza”, non tanto un’esperienza di teatro, ma piuttosto un’esperienza di vita nel teatro. Condividere una verità possibile con qualcuno è, oltre che un diritto, un dovere, e deve dare la misura della responsabilità di cui si è investiti facendo un’ attività artistica: prendere coscienza di questa responsabilità porta a definire un’etica del lavoro di creazione.
Il rispetto delle differenti sensibilità afferma inoltre una condizione di libertà creativa che conferisce unicità allo spettacolo, svelando allo spettatore un nuovo punto di vista, uno sguardo sulle cose caratteristiche di quel determinato gruppo di lavoro.
“Non ho mai creduto in un’unica verità, né in quella mia né in quella degli altri; sono convinto che tutte le scuole, tutte le teorie possono essere utili in un dato luogo e in una data epoca; ma ho scoperto che è possibile vivere soltanto se si ha un’ardente e unica identificazione con un punto di vista.” (Peter Brook)
Imposto il mio lavoro di ricerca sul non-giudizio; per me è la cosa più importante. Desidero creare un clima di fiducia: ho bisogno come regista che gli attori usino il loro corpo e affermino la loro diversità, e per far questo devono lasciare fuori dallo spazio di lavoro il giudizio -soprattutto il giudizio verso se stessi-, che inibisce l’attore lungo il percorso creativo.
All’inizio del lavoro invito gli attori a concentrarsi sul proprio corpo, non a cercare al di fuori di sé: è il corpo il mezzo che l’attore dispone per prendere coscienza di sé, dello spazio di lavoro e dei compagni di lavoro, del suo rapporto con gli oggetti; ed è il corpo il mezzo fondamentale di espressione.
L’aderenza tra corpo e azione porta ad una lettura immediata-non mediata appunto da simboli-di quanto avviene nello spettacolo.
Questo approccio fisico, di rispetto di tutti i corpi, e di valorizzazione della loro dimensione espressiva, lo condivido istintivamente; mi sembra un modo per affermare una libertà che ricerco anche nella mia esperienza di vita: in teatro questa libertà è un po’ più vicina.
“Il personaggio anche quando possiede un testo è un essere vivente che “nasce” solo ora, e che deve poter vedere il mondo in cui agirà con occhi privi di condizionamenti. Potrà essere un farabutto o un santo, ciò che conta è che la sua presenza possieda una verità interna profonda. Allenarsi a scoprire il mondo attraverso il racconto è sondare e scoprire qual è il desiderio profondo che ci anima, i luoghi che fanno vibrare l’anima nostra insieme a quella del personaggio che sta nascendo.” (Marco Baliani)
Il tema del desiderio-come viene riassunto in modo esemplare da Marco Baliani-è “la motivazione” per far teatro, e il mio desidero è che divenga la stessa anche per gli attori: in ogni caso tutto il mio lavoro è concentrato a fare in modo che si scopra questo desiderio.
All’interno del percorso creativo posso individuare due livelli del desiderio: il primo si riferisce a un “piacere conosciuto”, come può essere un testo che si vorrebbe mettere in scena o un tema che si vorrebbe affrontare; questo primo livello è importante perché dà l’entusiasmo per partire, la voglia di lavorare per mettere in scena qualcosa che sentiamo vicino; il secondo livello del desiderio si riferisce invece a ciò che il processo creativo dovrà mettere in luce (“sondare e scoprire”), è qualcosa che non sappiamo prima, ma diventerà l’anima dello spettacolo e farà in modo che la regola dell’attore venga rispettata: più ci avviciniamo al “desiderio profondo”, più l’aderenza tra corpo e azione, che l’attore potrà sperimentare, sarà vera, ed è di questa verità che l’attore ha bisogno nell’esperienza teatrale. Questo secondo livello potrà inoltre portare il gruppo di lavoro addirittura a ridefinire il desiderio del primo livello.
La musica è parte integrante dello spettacolo-oltre ad essere uno strumento di lavoro fondamentale durante la fase di formazione del gruppo, e successivamente di creazione.
Parto dall’assunto che ogni gesto, ogni movimento è musica, per cui le musiche utilizzate non accompagnano mai il gesto, il movimento, ma in qualche modo ne derivano. Più in generale, penso allo spettacolo in termini di opera musicale, di organicità musicale, più che in termini di storia: mi interessa l’energia-cioè il rapporto tra ritmo, volume e tono.
Per il pubblico si tratta dunque di vivere l’incontro con la diversità, e fare l’esperienza di un altro punto di vista.
Antonello Cecchinato